Gli archetipi dell’inconscio collettivo

1935

L'ipotesi di un inconscio collettivo fa parte di quei concetti che lì per lì stupiscono il pubblico, ma che poi entrano presto in suo uso e possesso come concetti familiari; il che appunto è avvenuto per il concetto di inconscio. L'idea filosofica di inconscio, quale è esposta soprattutto da Carl G. Carus ed Eduard von Hartmann, dopo essere stata sommersa dalle straripanti ondate del materialismo e dell'empirismo senza lasciarsi dietro tracce degne di nota, riemerse a poco a poco all'interno dell'ambito scientifico della psicologia medica.

Dapprima il concetto di inconscio si limitò a designare la situazione di contenuti rimossi o dimenticati. Per Freud l'inconscio, benché almeno metaforicamente compaia già come soggetto attivo, in sostanza non è altro che il punto ove convergono questi contenuti rimossi e dimenticati, e deve a essi soli la sua importanza pratica. Conseguentemente, secondo questo modo di vedere, esso è esclusivamente di natura personale,1 benché d'altra parte Freud ne abbia riconosciuto la modalità di pensiero arcaico-mitologica.

Un certo strato per così dire superficiale dell'inconscio è senza dubbio personale: noi lo chiamiamo «inconscio personale». Essa poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto «inconscio collettivo». Ho scelto l'espressione «collettivo» perché questo inconscio non è di natura individuale, ma universale e cioè, al contrario della psiche personale, ha contenuti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui. In altre parole, è identico in tutti gli uomini e costituisce un sostrato psichico comune, di natura soprapersonale, presente in ciascuno.

L'esistenza psichica si riconosce soltanto dalla presenza di «contenuti capaci di divenire coscienti»; possiamo perciò parlare di un inconscio solo in quanto siamo in grado di indicarne i contenuti. I contenuti dell'inconscio personale sono principalmente i cosiddetti «complessi a tonalità affettiva», che costituiscono l'intimità personale della vita psichica. I contenuti dell'inconscio collettivo sono invece i cosiddetti «archetipi».

L'espressione «archetipo» si trova già in Filone di Alessandria2 con riferimento all'immagine di Dio nell'uomo. Così pure in Ireneo,3 dove si legge: «Il creatore del mondo non fece queste cose a partire da se stesso, ma le trasse da archetipi estranei». Nel Corpus hermeticum Dio è chiamato άρχέτυπον φῶς (la luce archetipica). In Dionigi l'Areopagita l'espressione si trova ripetutamente: nel De coelesti hierarchia, II. 4:  αί ἁύλαι ἀρχετυπία (gli archetipi immateriali), come nel De divinis nominibus, II. 6. In sant'Agostino l'espressione «archetipo» non si trova, ma se ne trova l'idea; così nel De diversis quaestionibus, LXXXIII. 46: «Idee originarie... che non sono state create... che sono contenute nell'intelligenza divina».4 «Archetipo» è una parafrasi esplicativa dell'èidos platonico.

Ai nostri fini tale designazione è pertinente e utile poiché ci dice che, per quanto riguarda i contenuti dell'inconscio collettivo, ci troviamo davanti a tipi arcaici o meglio ancora primigeni, cioè immagini universali presenti fin da tempi remoti. L'espressione représentations collectives, che Lévy-Bruhl usa per designare le figure simboliche delle primitive visioni del mondo, si potrebbe usare senza difficoltà anche per i contenuti inconsci, poiché significa più o meno la stessa cosa. Nelle tradizioni primitive della tribù gli archetipi si presentano modificati in una speciale accezione. Certamente non si tratta più di contenuti dell'inconscio: essi si sono ormai trasformati in formule consce, perlopiù tramandate in veste di «insegnamento esoterico», tipica forma di trasmissione di contenuti collettivi originariamente derivanti dall'inconscio.

Altra ben nota espressione degli archetipi sono il «mito» e la «fiaba». Ma anche qui si tratta di forme specificamente improntate, trasmesse nel corso di lunghi periodi. Il concetto di archetipo conviene quindi soltanto indirettamente alle représentations collectives, in quanto esso si limita a designare i contenuti psichici non ancora sottoposti a elaborazione cosciente e che per conseguenza rappresentano un dato psichico ancora immediato. Come tale, l'archetipo differisce non poco dalla formula divenuta storica o elaborata. Specialmente ai gradi più elevati dell'insegnamento esoterico, gli archetipi si presentano in una versione che di solito rivela in modo inequivocabile che essi sono stati giudicati e valutati da un'elaborazione cosciente. Invece la loro apparizione diretta, quale ci si presenta nei sogni e nelle visioni, è molto più individuale, incomprensibile o ingenua di quanto non sia, per esempio, nel mito. L'archetipo rappresenta in sostanza un contenuto inconscio che viene modificato attraverso la presa di coscienza e per il fatto di essere percepito, e ciò a seconda della consapevolezza individuale nella quale si manifesta.5

Che cosa s'intenda con la parola «archetipo» è espresso molto chiaramente dal suo rapporto, or ora esposto, con il mito, le dottrine esoteriche e la fiaba. Ma se tentiamo di scoprire che cosa sia «psicologicamente» un archetipo, le cose si complicano. Finora, nelle indagini mitologiche, ci si è sempre limitati a far ricorso a rappresentazioni solari, lunari, meteorologiche, vegetali o d'altro genere, ma non sì è mai accettata la tesi che i miti siano in primo luogo manifestazioni psichiche che rivelano l'essenza dell'anima. All'uomo primitivo non importa quasi affatto conoscere la spiegazione oggettiva dei fenomeni evidenti; egli sente invece la perentoria necessità, o meglio, la sua psiche inconscia avverte l'irresistibile impulso di far risalire ogni esperienza sensibile a un accadere psichico. Al primitivo non basta veder sorgere e tramontare il sole: quell'osservazione esteriore deve costituire al tempo stesso anche un «accadimento psichico», e cioè il sole nel suo peregrinare deve rappresentare il destino di un dio o di un eroe il quale, in fin dei conti, non vive che nell'anima dell'uomo.

Tutti i fenomeni naturali mitizzati, come estate e inverno, fasi lunari, stagioni delle piogge ecc., non sono affatto allegorie6 di quegli avvenimenti oggettivi, ma piuttosto espressioni simboliche dell'interno e inconscio dramma dell'anima il quale diventa accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione, del riflesso cioè nei fenomeni naturali. La proiezione è così radicata che sono occorsi alcuni millenni di civiltà per separarla, sia pure in misura relativa, dall'oggetto esterno.

Nel caso dell'astrologia, per esempio, si è giunti addirittura ad accusare di eresia quest'antichissima scientia intuitiva, poiché l'uomo non aveva ancora portato a termine il processo di separazione della caratterologia psicologica dalle stelle. E chi oggi crede ancora o ritorna a credere nell'astrologia finisce sovente per ricadere nelle antiche ipotesi superstiziose degli influssi astrali, benché chiunque sia in grado di calcolare un oroscopo dovrebbe sapere che dai tempi di Ipparco di Alessandria l'equinozio di primavera è fissato al grado zero dell'Ariete, e che per conseguenza ogni oroscopo si basa su uno zodiaco arbitrario, poiché, da allora, a seguito della precessione degli equinozi, l'equinozio di primavera si è spostato a poco a poco verso i primi gradi dei Pesci.

L'uomo primitivo è di una soggettività così impressionante per noi che si sarebbe dovuto pensare subito a collegare i miti alla vita psichica. La sua conoscenza della natura è essenzialmente linguaggio e rivestimento esteriore di un processo psichico inconscio; ma proprio perché quest'ultimo è inconscio, per spiegare il mito si è pensato a tutto fuorché alla psiche. Non si sapeva che la psiche contiene tutte quelle immagini dalle quali i miti sono sorti, e che il nostro inconscio è un soggetto attivo e passivo, il cui dramma l'uomo primitivo ritrova per analogia in tutti i processi naturali grandi e piccini.7

«Nel tuo petto sono le stelle del tuo destino», dice Seni a Wallenstein; il che dovrebbe soddisfare ogni astrologo, solo che si sapesse qualcosa dei segreti del cuore. Ma finora se n'è avuta una comprensione limitata; né mi azzardo ad asserire che le cose siano oggi a un punto migliore.

Le tradizioni della tribù sono sacro-pericolose. Tutte le dottrine esoteriche cercano di afferrare gli invisibili accadimenti dell'anima e tutte rivendicano la massima autorità. Quello che è vero per quelle primitive dottrine vale ancor più per le religioni attuali. Esse contengono una rivelazione originariamente segreta e hanno espresso i misteri dell'anima in splendide immagini. I loro templi e le loro sacre scritture annunciano in immagine e in parola l'antica dottrina consacrata, rendendola accessibile a ogni animo credente, a ogni intuizione sensibile, a ogni vasta indagine di pensiero. Ma bisogna dire che quanto più bella, imponente e grandiosa è l'immagine elaborata e trasmessa, tanto più essa è lontana dall'esperienza individuale. Possiamo ancora soltanto penetrare, immedesimarci in essa, ma l'esperienza primigenia è perduta.

Per quale motivo la psicologia è la più giovane delle scienze empiriche? Perché l'inconscio non è stato già scoperto da molto tempo e non è stato rivelato il suo tesoro di immagini eterne? Semplicemente perché avevamo, per tutto ciò che è psiche, una formula religiosa, molto più bella e più vasta dell'esperienza diretta. Se per molti è impallidita la visione cristiana del mondo, le simboliche miniere di tesori orientali sono ancora piene di meraviglie capaci di alimentare per molti anni ogni brama di pompa e di sfarzo. E queste immagini (siano esse cristiane o buddhiste o altro) sono per di più belle, misteriose e suggestive. Certo, quanto più ci sono abituali, tanto più l'uso frequente le ha levigate, cosicché esse conservano soltanto la banale esteriorità di un paradosso quasi privo di senso. Il mistero del parto verginale o la consustanzialità del Figlio con il Padre, o la Trinità che non è una triade, non danno più ali ad alcuna fantasia filosofica e sono divenuti semplici oggetti di fede. Non c'è quindi da meravigliarsi se le aspirazioni religiose, il senso della fede e la speculazione filosofica dell'europeo colto sono attratti dai simboli orientali, dalle grandiose concezioni indiane della divinità e dalle profondità della filosofia taoista cinese, così come in altri tempi il cuore e la mente degli antichi furono sedotti dalle idee cristiane.

Molti sono coloro che, abbandonatisi in un primo momento all'azione del simbolo cristiano, sono poi caduti preda di una nevrosi kierkegaardiana o hanno visto il loro rapporto con Dio, a seguito di un progressivo impoverimento di simboli, trasformarsi in un insopportabile, esasperato rapporto Io-Tu, e si sono arresi infine all'incanto e alla singolare novità dei simboli orientali. Questa capitolazione non è sempre necessariamente una sconfitta, essa piuttosto dimostra la ricettività e la vitalità del sentimento religioso. Osserviamo qualcosa di simile nell'uomo colto orientale che non di rado si sente attratto dal simbolo cristiano o dalla scienza (così poco congeniale allo spirito orientale), dando perfino prova di un'invidiabile apertura in questi campi.

Il fatto di soggiacere alle immagini eterne è cosa in sé normale. Per questo esse esistono. Devono attirare, convincere, affascinare e sopraffare, poiché sono create con il materiale primigenio della rivelazione e rappresentano la sempiterna esperienza della divinità, di cui hanno sempre dischiuso all'uomo il presentimento, proteggendolo contemporaneamente dal contatto diretto con essa. Queste immagini sono, grazie al secolare lavorio della mente umana, inquadrate in un vasto sistema di pensiero ordinatore del mondo e al tempo stesso rappresentate da un'istituzione potente, estesa, vetusta e venerabile chiamata Chiesa.

A illustrazione del mio assunto mi servirò del valido esempio di un mistico eremita svizzero recentemente canonizzato, fratel Nikiaus von der Flüe. L'esperienza per lui più importante fu la cosiddetta «visione della Trinità», la quale lo occupò a tal punto che egli la dipinse o la fece dipingere sulla parete della sua cella. Il dipinto è ancora conservato nella chiesa parrocchiale di Sachsein: è un «mandala» diviso in sei parti, il cui centro è costituito dall'incoronato volto di Dio. Sappiamo che per anni interi fratel Klaus si sforzò di indagare la natura della sua visione sulla scorta del libriccino illustrato di un mistico tedesco e si studiò di rendere l'avvenimento originario in una forma che gli fosse comprensibile. E quel che io chiamo «elaborazione» del simbolo. Le sue riflessioni sulla natura della visione, influenzate dalle mistiche raffigurazioni del suo manuale, lo condussero necessariamente a concludere che doveva aver visto la Santissima Trinità, il summum bonum, l'eterno Amore stesso. A questa idea corrisponde anche l'immagine, rasserenata, di Sachsein.

L'esperienza originaria però era stata del tutto diversa. Lo spettacolo apparso nell'estasi a fratel Klaus era così terrificante che il suo stesso volto ne fu mutato, al punto che la gente se ne spaventava ed era davanti a lui sgomenta. Gli era apparsa infatti una visione della massima intensità. Ecco quel che ne scrive Woelflin: «Tutti quelli che lo avvicinavano erano al primo sguardo pieni di grande spavento. Sul motivo di quello spavento era solito dire egli stesso di aver visto una luce penetrante che rappresentava un volto umano, alla cui vista egli aveva temuto che il suo cuore andasse in frantumi. Perciò, preso dallo sgomento, aveva subito distolto la faccia ed era caduto a terra; per questo, il suo viso era adesso causa di terrore agli altri».

A buon diritto questa visione è stata messa in rapporto con Apocalisse, 1.13 ss.,8 e cioè con quella singolare immagine di Cristo che, quanto a temibile stranezza, è superata soltanto dal mostruoso agnello dai sette occhi e dalle sette corna (Apocalisse, 5.6 ss.). E molto difficile stabilire un nesso tra questa figura e il Cristo dei Vangeli. Donde l'interpretazione ben definita che della visione di fratel Klaus fu ben presto fornita dalla tradizione. Così nel 1508 l'umanista Carolus Bovillus scrive a un amico: «Voglio riferire una visione che in una notte stellata, mentr'egli attendeva alla preghiera e alla meditazione, gli apparve nel cielo. Egli vide un volto umano atteggiato a un'espressione spaventevole, pieno d'ira e di minacce... eccetera».9

Questa interpretazione concorda perfettamente con la moderna amplificazione di Apocalisse, 1.13.10 Né vanno dimenticate le altre visioni di fratel Klaus, per esempio quella di Cristo nella pelle d'orso, quella di Dio Padre e di Dio Madre e di lui stesso come Figlio, e così via. Esse presentano tratti in parte davvero non dogmatici.

Tradizionalmente si stabiliva un nesso tra la grande visione di fratel Klaus, l'immagine della Trinità nella chiesa di Sächseln e il simbolismo della ruota nel cosiddetto Trattato del pellegrino: a un pellegrino che lo visitava fratel Klaus mostrò l'immagine d'una ruota. Palesemente quell'immagine lo teneva occupato. Blanke è del parere che, contrariamente alla tradizione, nessuna relazione esista tra la visione e l'immagine della Trinità.11 A me sembra che il suo scetticismo vada troppo oltre. L'interesse di fratel Klaus per la figura della ruota deve aver avuto un motivo. Visioni simili alla sua producono spesso confusione e disintegrazione (il cuore «va in frantumi»). L'esperienza insegna che il «circolo protettivo», il mandala, è l'antidoto tradizionale a uno stato mentale caotico. E perciò fin troppo comprensibile che il frate fosse affascinato dal simbolo della ruota; né l'interpretare la spaventosa visione come «esperienza di Dio» deve metterci fuori strada. Il nesso fra la grande visione, l'immagine della Trinità di Sächseln e con il simbolo della ruota mi sembra perciò molto probabile, anche per motivi psicologici, interiori.

La visione, senza dubbio terrificante, esplosa a guisa di eruzione vulcanica sull'orizzonte religioso del frate, senza preparazione dogmatica né commento esegetico, richiedeva naturalmente un lungo lavoro di assimilazione per essere integrata con l'anima e con la sua visione generale, restaurando così l'equilibrio turbato. L'accomodamento fu raggiunto sull'allora granitico terreno del dogma, che mostrò la propria forza di assimilazione trasformando qualcosa di spaventosamente vivo nella bella intuizione dell'idea trinitaria. La spiegazione avrebbe però potuto anche aver luogo su un terreno completamente diverso: quello della visione stessa e della sua perturbante realtà, probabilmente a danno del concetto cristiano di Dio e indubbiamente ancor più a danno di fratel Klaus, che in quel caso non sarebbe diventato beato, ma magari un eretico (se non addirittura un folle) e avrebbe forse terminato la sua vita sul rogo.

Quest'esempio dimostra l'utilità del simbolo dogmatico: esso esprime un'esperienza psichica (tanto potente quanto pericolosamente decisiva e così sopraffacente da essere giustamente chiamata «esperienza di Dio») in modo da renderla sopportabile all'umana comprensione, senza limitare sostanzialmente l'ambito dell'esperienza vissuta né danneggiarne il significato preponderante. La visione dell'ira divina che incontriamo, in un certo senso, anche in Jacob Böhme, mal si accorda con il Dio neotestamentario, l'amoroso padre celeste, e avrebbe potuto diventare facilmente fonte di un conflitto interiore. Ciò avrebbe ben corrisposto allo spirito del tempo, la fine del quindicesimo secolo, l'epoca di un Nicola Cusano che con la formula della complexio oppositorum volle prevenire lo scisma incombente. Non molto più tardi il concetto yahwistico di Dio passò attraverso una serie di rinascite nel protestantesimo. Yahwèh è un concetto di Dio in cui gli opposti non sono ancora conciliati.

Fratel Klaus si era posto al di fuori degli usi e della tradizione abbandonando casa e famiglia, vivendo a lungo da solo e contemplando le profondità dello specchio oscuro, così da provare la meraviglia e lo spavento dell'esperienza primigenia. In questa situazione, l'immagine dogmatica della divinità sviluppatasi nel corso di molti secoli agì come una pozione risanatrice aiutandolo ad assimilare, senza esserne dilacerato, la fatale irruzione di un'immagine archetipica. Angelus Silesius, meno fortunato, fu distrutto dal conflitto interno, poiché al suo tempo la saldezza della Chiesa, che garantisce il dogma, era ormai scossa.

Jacob Böhme conobbe un Dio «fiammeggiante d'ira», un vero Deus absconditus, ma riuscì a superare la profonda contraddizione per mezzo della formula cristiana Padre-Figlio, e a incorporarla speculativamente nella sua concezione del mondo che, per quanto gnostica, era per l'essenziale ancora cristiana; altrimenti sarebbe diventato dualista. D'altra parte, fu senza dubbio soccorso dall'alchimia, che già da tempo preparava segretamente l'unione degli opposti. Purtuttavia il contrasto ha lasciato tracce ancora significative nel mandala allegato alle Viertzig Fragen über die Seele [Quaranta questioni sull'anima] (1647), che illustra l'essenza della divinità: esso infatti è diviso in una metà scura e in una metà chiara, e i semicerchi corrispondenti, anziché chiudersi ad anello, risultano contrapposti.12

Il dogma sostituisce l'inconscio collettivo e lo esprime su vasta scala. Perciò, in linea di principio, il modo di vita cattolico non conosce una problematica psicologica in questo senso. La vita dell'inconscio collettivo sbocca quasi interamente nelle rappresentazioni archetipiche del dogma e fluisce come una corrente bene imbrigliata nel simbolismo del Credo e del rituale: la sua vita si manifesta nell'interiorità dell'anima cattolica. L'inconscio collettivo, quale oggi lo intendiamo, non fu mai psicologico poiché prima della Chiesa cristiana esistevano i misteri antichi, i quali a loro volta si perdevano nelle nebulosità del Neolitico. Mai l'umanità ha mancato di immagini potenti, apportatrici di magica protezione contro la perturbante realtà delle profondità psichiche; le figure dell'inconscio furono sempre espresse mediante immagini protettrici e risanatrici e in tal modo respinte nello spazio cosmico, ultrapsichico.

L'iconoclastia della Riforma ha però letteralmente praticato una breccia nel baluardo formato dalle immagini sacre e, da allora, le va sgretolando una dopo l'altra. Entrando in collisione con la ragione al suo destarsi, la loro condizione divenne precaria. Per di più, il loro significato si era già perduto da un pezzo. Ma si era davvero perduto, o forse non era mai stato conosciuto, e forse furono i protestanti ad accorgersi in epoca recente che nessuno aveva la più pallida idea del significato del parto verginale, della divinità di Cristo o delle complessità della Trinità? Si direbbe quasi che queste immagini siano meramente esistite, e che la loro esistenza sia stata semplicemente accettata, senza dubbi e senza riflessione, un po' come si fa l'albero di Natale e si nascondono le uova di Pasqua, di solito totalmente ignari del significato di tali usanze.

Le immagini archetipiche sono a priori così cariche di significato che non ci si chiede mai che cosa veramente possano voler dire. E' per questo che di quando in quando muoiono gli dèi: perché a un tratto si scopre che non significano niente, che sono dei otiosi di legno e di pietra creati dalla mano dell'uomo. In realtà, l'uomo ha scoperto una cosa sola: che alle proprie immagini non ha riflettuto ancora affatto. E quando comincia a riflettervi, lo fa con l'aiuto di ciò che egli chiama «ragione», ma che in realtà non è altro che la somma delle sue prevenzioni e delle sue miopie.

La storia dello sviluppo del protestantesimo è un'iconoclastia cronica: le mura sono crollate una dopo l'altra, e la devastazione non è stata neanche troppo difficile, una volta scossa l'autorità della Chiesa. Sappiamo come in grande e in piccolo, in generale e in particolare, i crolli siano seguiti ai crolli e come ne sia derivata la spaventosa povertà di simboli che regna attualmente. Con ciò è scomparsa anche la forza della Chiesa, fortezza spogliata dei suoi bastioni e delle sue casematte, casa dalle pareti distrutte, esposta a tutti i venti e a tutti i rischi del mondo. Altra deplorevole rovina, che affligge il sentimento storico, è lo spezzettamento del protestantesimo in cento denominazioni particolari, segno infallibile del fatto che l'inquietudine perdura.

Il protestante è stato veramente proiettato in una situazione senza difesa, della quale l'uomo naturale dovrebbe inorridire. La coscienza illuminata non ne vuol sentir parlare, ma cerca altrove, furtivamente, quel che in Europa è andato perduto. Si va alla ricerca delle immagini efficaci, delle forme d'intuizione che placano l'inquietudine del cuore e dell'intelletto, e si trovano i tesori d'Oriente.

In sé e per sé non vi è nulla da obiettare. Nessuno ha costretto i Romani a importare in massa i culti asiatici. Se il cristianesimo per la sua pretesa eterogeneità fosse stato tanto estraneo ai popoli germanici, essi l'avrebbero potuto facilmente respingere quando impallidì il prestigio delle legioni romane. Esso, invece, è rimasto, perché corrisponde al modello archetipico esistente; ma nel corso dei secoli è diventato qualcosa di cui il suo fondatore si sarebbe non poco meravigliato se fosse sopravvissuto; e così anche il carattere del cristianesimo dei Neri e degli Indiani potrebbe dar adito a riflessioni storiche. Perché dunque l'Occidente non dovrebbe assimilare le forme orientali? I Romani non andarono forse a Eleusi, in Samotracia e in Egitto a farsi iniziare? Sembra perfino che in Egitto ne sia derivato un vero e proprio movimento turistico.

Gli dèi dell'Eliade e di Roma perirono della stessa malattia dei nostri simboli cristiani: allora come oggi gli uomini scoprirono che quei simboli non dicevano loro niente, mentre gli dèi stranieri avevano ancora del mana cui attingere. I loro nomi erano strani e incomprensibili, e le loro azioni rivestite di un'oscurità carica di presagi, ben diversamente dalla trita chronique scandaleuse dell'Olimpo. Perlomeno, i simboli asiatici erano indecifrabili e non banali come gli dèi consueti; il fatto che il nuovo fosse accolto con la stessa leggerezza con cui il vecchio era stato respinto non costituì allora un problema.

Lo sarà oggi? Indosseremo, come fosse un abito nuovo, simboli belli e fatti, cresciuti su suolo straniero, imbevuti di sangue straniero, espressi in lingue straniere, nutriti di cultura straniera, incorporati in una storia straniera? Mendicanti rivestiti di panni regali, monarchi travestiti da mendicanti? E senza dubbio possibile. Ovvero esiste in noi qualcosa che ci impone di non abbandonarci a una simile mascherata, e magari anche di cucirci da noi il nostro abito?

Sono convinto che il crescente impoverimento di simboli ha un senso, che questo sviluppo ha una sua intima coerenza. Tutto ciò' di cui non ci si dava pensiero, e che perciò è rimasto privo di un nesso coerente con la coscienza nella sua evoluzione, è andata perduto. Se cercassimo di coprire la nostra nudità con sfarzosi abiti orientali, come fanno i teosofi, saremmo infedeli alla nostra storia; non ci si riduce prima alla mendicità per poi posare da re indù da teatro. Sarebbe molto meglio, mi sembra, riconoscere decisamente la nostra povertà spirituale, conseguente alla mancanza di simboli, anziché arrogarci un'illusoria ricchezza della quale assolutamente non siamo eredi legittimi. E’ ben vero che siamo gli eredi legittimi del simbolismo cristiano, ma abbiamo in certo qual modo sperperato questa eredità. Abbiamo lasciato crollare la casa che i nostri padri hanno costruito e ora cerchiamo di fare irruzione in palazzi orientali che essi non hanno mai conosciuto.

Chi ha perduto i simboli storici e non può accontentarsi di «surrogati», si trova oggi, è indubbio, in una situazione difficile: dinanzi a lui si spalanca il nulla, da cui si ritrae impaurito, angosciato. Anzi, peggio: il vuoto si riempie di idee politiche e sociali assurde, che si distinguono tutte per il loro squallore spirituale. Ma chi non riesce ad accontentarsi di queste saccenterie pedanti, si vede costretto a fare uso sul serio della sua cosiddetta fiducia in Dio, e diventa allora evidente che la paura, l'angoscia è in questo caso ancor più fondata. Essa non è certamente ingiustificata, perché quanto più Dio è vicino, tanto maggiore sembra il pericolo. E’ cioè pericoloso professare la propria povertà spirituale: chi è povero desidera, e chi desidera attira su di sé qualche fatalità. C'è un proverbio svizzero che dice drasticamente: «Dietro ogni ricco c'è un diavolo, e dietro ogni povero ce ne sono due».

Come nel cristianesimo il voto di povertà distoglieva la mente dai beni terreni, così anche la povertà spirituale vuol rinunciare alle false ricchezze dello spirito, per ritirarsi non solo dai quei miseri resti di un grande passato che oggi si chiamano «chiese» protestanti, ma anche da tutte le lusinghe di sapore esotico, per tornare infine a se stessi, là dove, alla fredda luce della coscienza, la nudità del mondo si dilata fino alle stelle.

Questa povertà l'abbiamo ereditata già dai nostri padri. Ricordo ancora la preparazione alla Cresima, fattami da mio padre. Il catechismo mi annoiava in maniera indicibile. Una volta, mentre lo sfogliavo per trovarvi qualcosa d'interessante, lo sguardo mi cadde sui paragrafi relativi alla Trinità. Quest'argomento destò il mio interesse, e con impazienza aspettai di arrivare a quel punto. Ma quando giunse l'ora desiderata, mio padre mi disse: «Questo capitolo lo saltiamo, perché io stesso non ci capisco niente». Così fu sepolta la mia ultima speranza. Ammirai, a dire il vero, l'onestà di mio padre, ma ciò non toglie che da quel momento ogni chiacchiera in tema di religione mi abbia mortalmente annoiato.

Il nostro intelletto ha compiuto imprese gigantesche, ma nel frattempo la nostra dimora spirituale è crollata. Siamo profondamente convinti che neanche con il più potente e più moderno telescopio costruito in America riusciremo a scoprire alcun empireo dietro le nebulose lontane; sappiamo che il nostro sguardo errerà disperato attraverso la morta vacuità di incommensurabili spazi. Né la situazione migliora quando la fisica matematica ci rivela il mondo dell'infinitamente piccolo.

Se infine esumiamo la saggezza di tutti i tempi e di tutti i popoli, troviamo che tutto quel che vi è di più caro e di più prezioso è già stato detto molto tempo fa con parole più belle. Come bambini avidi tendiamo la mano per coglierlo, credendo che quando lo avremo afferrato lo possederemo. Ma quel che è nostro non ha più valore, e nel tentativo di afferrare le mani si stancano, perché dovunque volgiamo lo sguardo incontriamo ricchezze. Sono ricchezze che vanno però tutte in fumo, e più di un apprendista stregone ha finito per annegare nelle acque da lui evocate, se non è prima caduto vittima dell'idea delirante secondo cui esiste una saggezza buona e una saggezza cattiva. Tra questi adepti si reclutano quegli inquietanti malati che credono di avere una missione profetica. La separazione artificiosa della vera e della falsa saggezza causa infatti tensione psichica e quindi una solitudine e una brama pari a quelle del morfinomane che spera sempre d'incontrare compagni di vizio.

Se la nostra eredità naturale si è volatilizzata, anche lo spirito, per esprimerci come Eraclito, è sceso dalla sua altezza infuocata. Ma quando lo spirito diventa pesante, si trasforma in acqua; allora l'intelletto, con luciferina presunzione, si impossessa della sede sulla quale un tempo troneggiava lo spirito. Lo spirito può, sì, rivendicare la patria potestas sull'anima; ma non lo può l'intelletto, che è terrestre, che dell'uomo è strumento, ma non è un creatore di mondi spirituali o un padre dell'anima. Qui Klages ha colpito nel segno, e anche la rivalutazione dello spirito operata da Scheler è alquanto modesta, perché entrambi appartengono a un'epoca in cui lo spirito non sta più in alto, ma in basso, non è più fuoco, ma acqua.

La via dell'anima che cerca il padre perduto, come Sophia cerca Bythos, porta perciò all'acqua, a quell'oscuro specchio che poggia sul suo fondo. Chi ha eletto per sé quello stato di povertà spirituale che è la vera eredità di un protestantesimo vissuto coerentemente fino in fondo, giunge alla via dell'anima che conduce a quest'acqua: acqua che non è vuota metafora, ma simbolo vivente dell'oscura psiche. Illustrerò nel modo più efficace ciò che ho detto con un esempio concreto scelto tra i molti.

Un teologo protestante fece più volte lo stesso sogno: Si trovava sul versante di una montagna, sotto la quale giaceva una valle profonda che conteneva un lago oscuro. Egli sapeva, in sogno, che qualche cosa lo aveva fino allora sempre trattenuto dall'avvicinarsi al lago, ma quella volta decise di raggiungerlo. Mentre si avvicinava alla riva, l'atmosfera si fece buia e tetra e un colpo di vento guizzò all'improvviso sullo specchio dell'acqua. Allora, preso dal panico, si svegliò.

Questo sogno mostra il linguaggio naturale del simbolo. Il dormiente scende nella profondità del suo essere, giungendo così all'acqua misteriosa. Qui accade il miracolo della piscina di Betsaida: un angelo scende e agita l'acqua, conferendole un potere risanatore. Nel sogno è il vento, lo pneuma che spira dove vuole. Occorre che l'uomo discenda all'acqua perché essa miracolosamente si animi. L'alito spirituale che guizza sopra l'acqua oscura è però inquietante come tutto ciò di cui non siamo, o di cui non conosciamo, la causa. Esso denota una presenza invisibile, un numen al quale non hanno dato vita né aspettativa umana né macchinazioni arbitrarie. Esso vive di per sé; e un brivido assale l'uomo per il quale era spirito soltanto ciò in cui egli crede, ciò che egli fa, ciò che si trova nei libri o di cui parla la gente. Ma quando la presenza si manifesta spontaneamente, allora è come un'apparizione spiritica, e un'angoscia primitiva s'impadronisce dell'ingenuo intelletto. Allo stesso modo gli anziani della tribù degli Elgoni in Kenia mi hanno descritto l'azione del dio notturno da essi chiamato «creatore di paura». «Ti compare davanti» dicevano «come un soffio freddo di vento, facendoti rabbrividire, oppure se ne va in giro fischiando nell'erba alta.» Pan africano che si aggira tra i canneti suonando il flauto nell'ora meridiana dei fantasmi, e spaventa i pastori.

Così, nel sogno, l'alito dello pneuma ha ancora una volta spaventato un pastore, una guida del gregge, che nell'oscura ora notturna camminava nel canneto sulla riva dell'acqua, nella valle profonda dell'anima. Sì, quello spirito un tempo infocato è sceso nella natura, nell'albero, nelle acque della psiche, come il vecchio dello Zarathustra nietzschiano che, stanco dell'umanità, s'era ritirato nella foresta per mugghiare con gli orsi in lode al Creatore.

Bisogna seguire la via dell'acqua, che va sempre all'ingiù, se si vuol riportare alla luce il tesoro, la preziosa eredità del Padre. Nell'inno gnostico all'anima, il figlio è mandato dai genitori a cercare la perla staccatasi dalla corona del re padre. La perla giace sul fondo di una sorgente custodita da un drago, nella terra degli Egizi, nell'ebbro mondo degli appetiti carnali, delle ricchezze di natura fisica e spirituale. Il figlio ed erede si avvia in cerca della gemma ma dimentica tra i piaceri se stesso e il suo compito, finché una lettera del padre gli ricorda quale sia il suo dovere. Si mette allora in viaggio verso l'acqua e si tuffa nell'oscura profondità della fonte sul cui fondo trova la perla che offrirà poi alla divinità più eccelsa.

Quest'inno, attribuito a Bardesane, data di un tempo che assomiglia al nostro sotto più di un aspetto. L'umanità cercava e attendeva, e fu il Pesce - levatus de profundo13 - a divenire il simbolo del salvatore.

Mentre scrivevo queste righe, ricevetti una lettera da Vancouver, di mano ignota. Chi scriveva si meravigliava dei propri sogni che avevano continuamente come contenuto l'acqua: Quasi sempre nei miei sogni c'è l'acqua; o faccio il bagno, o trabocca la tazza, o scoppia una tubatura, o la mia casa è slittata fino al bordo dell'acqua, o vedo un conoscente in procinto di sprofondare nell'acqua, o sto cercando di uscire dall'acqua, o sono nella vasca e l'acqua sta per traboccare e così via.

L'acqua è il simbolo più corrente dell'inconscio. Il lago della valle è l'inconscio che giace, per così dire, al di sotto della coscienza; perciò esso è spesso indicato anche come «subconscio», non di rado con la tonalità negativa di coscienza di qualità inferiore. L'acqua è lo «spirito della valle», il drago acquatico del Tao, la cui natura assomiglia all'acqua, uno yang accolto nello yin. Psicologicamente, quindi, l'acqua significa: spirito divenuto inconscio. Perciò il sogno del teologo molto giustamente gli attesta che egli può sperimentare sull'acqua l'opera dello spirito vivente, come una guarigione miracolosa nella piscina di Betsaida. La discesa nel profondo sembra precedere sempre l'ascesa.

Così un altro teologo14 sognò di vedere in vetta a un monte una sorta di castello del Gral. Si avviò per una strada che sembrava condurre proprio ai piedi della montagna, all'inizio della salita. Ma quando fu più vicino, scoprì con sua grande delusione che lo separava dal monte un abisso, un burrone tetro e profondo nel quale gorgogliava un'acqua d'averno. Un sentiero ripido conduceva sul fondo e si riarrampicava faticosamente su per l'altro fianco. La prospettiva non era invitante, e il teologo si svegliò. Anche qui, al sognatore che tende a una più luminosa altezza si oppone la necessità di sprofondare prima in un baratro oscuro: questa si dimostra condizione indispensabile per un'ulteriore ascesa. Nel baratro si cela un pericolo: l'uomo prudente lo evita ma, così facendo, si lascia anche sfuggire il bene che un rischio, assunto con coraggio seppure imprudentemente, potrebbe conseguire.

La coscienza del sognatore resiste con forza a quanto il sogno attesta; per essa «spirito» è soltanto qualcosa che si può trovare sulle vette. Apparentemente lo «spirito» vien sempre dall'alto, mentre dal basso deriva tutto ciò che è riprovevole e torbido. Secondo questa concezione, spirito significa la massima libertà, un librarsi sugli abissi, una liberazione dal carcere ctonio e quindi un rifugio per tutte le anime timorose che non vogliono «divenire». L'acqua è invece tangibilmente terrena, è la fluidità del corpo governato dall'istinto, è il sangue che scorre, l'odore della bestia, la corporeità gravida di passioni.

L'inconscio è la psiche che dalla luce di una coscienza spiritualmente e moralmente lucida scende nel sistema nervoso chiamato, fin dall'antichità, «simpatico»; il quale non governa, come il sistema cerebrospinale, l'attività percettiva e muscolare dominando lo spazio circostante; mantiene invece, senza organi di senso, l'equilibrio della vita, e non soltanto ci trasmette per vie misteriose e tramite stimoli sintonici la conoscenza della natura intima della vita di altri esseri, ma irraggia anche su questi la sua azione interiore. Esso è in questo senso un sistema estremamente collettivo, la vera e propria base di ogni participation mystique, laddove la funzione cerebrospinale culmina nella separazione e determinazione delle qualità specifiche dell'Io, e attraverso l'intermediario spaziale si limita a riconoscere il superficiale e l'esterno. La funzione cerebrospinale sperimenta tutto come esteriorità; il simpatico come interiorità.

Ora, l'inconscio abitualmente appare come una sorta di frammento incapsulato della nostra vita più personale e più intima, qualcosa che la Bibbia chiama «cuore» e che interpreta, tra l'altro, come l'origine di tutti i cattivi pensieri. I recessi del cuore sarebbero abitati da spiriti malvagi assetati di sangue, furia repentina e debolezza sensuale. Così appare l'inconscio visto dalla coscienza. Ma la coscienza stessa sembra essere essenzialmente una funzione cerebrale che tutto dissocia e vede per particolari, e quindi anche l'inconscio, considerato in assoluto come il «mio» inconscio. Perciò si pensa generalmente che chi scende nell'inconscio cada nelle tormentose pastoie della soggettività egocentrica e sia esposto, in quella via senza uscita, all'assalto di tutte le belve che si suppone popolino l'antro del mondo psichico sotterraneo.

Chi guarda nello specchio dell'acqua vede per prima cosa, è vero, la propria immagine. Chi va verso se stesso rischia l'incontro con se stesso. Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente ciò che in esso si riflette, e cioè il volto che non esponiamo mai al mondo perché lo veliamo per mezzo della Persona, la maschera dell'attore. Ma dietro la maschera c'è lo specchio da cui il vero volto traspare.

E' questa la prima prova di coraggio da affrontare sulla via interiore, una prova che basta a far desistere, spaventata, la maggior parte degli uomini. L'incontro con se stessi è infatti una delle esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo che ci circonda. Chi è in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito: ha perlomeno fatto affiorare l'inconscio personale. Ma l'Ombra è parte viva della personalità e con questa vuol vivere sotto qualche forma. Non si può confutarne l'esistenza con argomenti, né con argomenti la si può rendere innocua. Si tratta di un problema estremamente difficile che non soltanto mette in causa l'uomo intero, ma gli ricorda al tempo stesso la sua impotenza e incapacità.

Le nature forti - o dovremmo piuttosto dire deboli? - non amano sentirsi porre questo problema; preferiscono escogitare un qualche eroico «al di là del bene e del male», e tagliano il nodo gordiano anziché scioglierlo. Ma presto o tardi il conto dev'esser saldato, e siamo costretti a confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con i nostri mezzi. Una simile ammissione, che ha il vantaggio di essere onesta, sincera e reale, permette di porre la base per una reazione compensatoria da parte dell'inconscio collettivo: ecco che adesso ci sentiamo inclini a prestare orecchio a un'idea utile o a percepire pensieri cui prima non permettevamo di formularsi. E magari facciamo attenzione ai sogni che si verificano in quel momento o riflettiamo a certi eventi che si producono in noi proprio allora.

Se assumiamo un simile atteggiamento, forze soccorritrici sopite nei più profondi recessi della natura umana si destano e intervengono, poiché impotenza e debolezza sono l'esperienza eterna e l'eterno problema dell'umanità, per il quale esiste anche un'eterna risposta, altrimenti l'uomo sarebbe già da tempo perito. Quando si è fatto tutto quello che si poteva fare, non rimane altro che quello che si potrebbe fare ancora, se si sapesse. Ma quanto sa di se stesso l'uomo? A quel che ci dice l'esperienza, ben poco. Perciò rimane ancora molto spazio per l'inconscio. La preghiera, come è noto, richiede un atteggiamento molto simile, e ha quindi anche una pari efficacia.

La necessaria, indispensabile reazione dell'inconscio collettivo si esprime in rappresentazioni di forma archetipica. L'incontro con se stessi significa anzitutto l'incontro con la propria Ombra. L'Ombra è, in verità, come una gola montana, una porta angusta la cui stretta non è risparmiata a chiunque discenda alla profonda sorgente. Ma dobbiamo imparare a conoscere noi stessi per sapere chi siamo, poiché inaspettatamente al di là della porta si spalanca una illimitata distesa, piena di inaudita indeterminatezza, priva in apparenza di interno e di esterno, di alto e di basso, di qua e di là, di mio e di tuo, di buono e di cattivo. E’ il mondo dell'acqua, in cui è sospesa, fluttua ogni vita, dove comincia il regno del «simpatico», l'anima di tutto ciò che è vivo, dove io sono inseparabilmente questo e quello, dove io sperimento in me l'altro e l'altro-da-me sperimenta me stesso.

L'inconscio collettivo non è affatto un sistema personale incapsulato, è oggettività ampia come il mondo, aperta al mondo. Io vi sono l'oggetto di tutti i soggetti, nel più pieno rovesciamento della mia coscienza abituale, dove io sono sempre soggetto che «ha» oggetti; là mi trovo talmente e direttamente collegato con il mondo intero che dimentico (anche troppo facilmente) chi io sia in realtà. «Perduto in se stesso» è un'espressione efficace per descrivere questo stato. Ma se una coscienza potesse vedere questo «se stesso», vedrebbe il mondo, o un mondo. Ecco perché dobbiamo sapere chi siamo.

Basta infatti che l'inconscio ci sfiori, perché noi ci trasformiamo in esso, in quanto diveniamo inconsci di noi stessi. E' questo il pericolo primigenio, istintivamente noto e oggetto di terrore per il primitivo che si trova ancora così vicino a questo pleroma. La sua coscienza è ancora insicura e poggia su basi barcollanti; è ancora infantile, appena emersa dalle acque primordiali. E facile che un'ondata dell'inconscio la travolga, e che egli dimentichi chi è, e faccia allora cose nelle quali non si riconosce. Perciò i primitivi temono gli affetti incontrollati, nei quali più che facilmente la coscienza naufraga cadendo in preda a fenomeni di possessione.

Per questo gli sforzi dell'umanità sono stati interamente volti al consolidamento della coscienza mediante i riti, le représentations collectives, i dogmi: che erano le dighe, le muraglie erette contro i pericoli dell'inconscio, i perils of the soul. Per questo il rito primitivo consiste in esorcismi, liberazione dalle stregonerie, eliminazione del malocchio, propiziazione, purificazione e produzione analogica, ossia magica, dell'accadimento salutare.

Queste muraglie, innalzate fin dalle epoche più lontane, divennero più tardi i fondamenti della Chiesa; sono le stesse che crollano quando i simboli invecchiano. Allora sale il livello delle acque e catastrofi senza limiti si abbattono sull'umanità. Il capo religioso (il «loco tenente gobernador») dei Taos Pueblos mi disse una volta: «Gli americani dovrebbero smettere di disturbare la nostra religione, perché se questa crolla e non possiamo più aiutare il sole, nostro padre, a percorrere il cielo, fra dieci anni loro e il mondo intero ne vedranno delle belle; allora il sole non sorgerà più». Ciò significa: scenderà la notte, si spegnerà la luce della coscienza e farà irruzione l'oscuro mare dell'inconscio.

Primitiva o no, l'umanità sta sempre sull'orlo di azioni che essa stessa compie ma non controlla. Per fare solo un esempio, il mondo intero vuole la pace, e il mondo intero si arma per la guerra, seguendo il detto: si vis pacem, para bellum. L'umanità non può nulla nei confronti dell'umanità, e gli dèi, come sempre, le additano la via del destino. Oggi gli dèi son chiamati «fattori», nome che deriva da facere = fare. I «fattori» stanno dietro le quinte del teatro del mondo. E così, nelle cose grandi come nelle piccole. Per quanto riguarda la coscienza, siamo padroni di noi stessi, sembriamo addirittura noi i «fattori»; ma se varchiamo la porta dell'Ombra, ci accorgiamo con spavento che di questi «fattori» siamo oggetto. Apprendere questa verità è decisamente sgradevole; nulla ci delude più della scoperta della nostra insufficienza. Essa può perfino far nascere un panico primitivo, in quanto la supremazia della coscienza, oggetto della nostra fede e della nostra timorosa cura, segreto del successo umano, si trova pericolosamente messa in dubbio. Siccome però l'ignoranza non è garanzia di sicurezza, ma anzi aumenta l'insicurezza, è molto meglio, nonostante la paura, renderci conto che siamo minacciati. Un problema ben impostato è già mezzo risolto. In ogni caso, sappiamo allora che il pericolo maggiore che ci minaccia sta nel non poter prevedere le reazioni della psiche. Chi riflette ha perciò da molto tempo capito che le condizioni storiche esterne di qualsiasi tipo sono soltanto l'occasione degli effettivi pericoli che sovrastano l'esistenza: i vaneggiamenti politico- sociali, i quali non vanno interpretati da un punto di vista causale come conseguenze necessarie di condizioni esteriori, bensì come decisioni determinate dall'inconscio.

Questo modo di porre il problema è nuovo, poiché in tutte le epoche che ci hanno preceduto si credeva ancora negli dèi, sotto una qualsiasi forma. E’ stato necessario l'impoverimento senza precedenti dei simboli per riscoprire gli dèi come fattori psichici, come archetipi cioè dell'inconscio. Questa scoperta è certo, per il momento, ancor poco credibile. Per esserne convinti, ci occorre l'esperienza cui si è fatto cenno nel sogno del teologo; soltanto allora avremo sperimentato l'autoattività dello spirito al di sopra delle acque. Da quando le stelle sono cadute dal cielo e i nostri simboli più alti sono impalliditi, domina nell'inconscio una vita segreta. Perciò abbiamo oggi una psicologia, perciò parliamo di inconscio. Tutto questo sarebbe, ed è in realtà, superfluo in un'epoca e in un tipo di cultura dotati di simboli, poiché i simboli sono spirito che viene dall'alto, e allora anche lo spirito è in alto. Sarebbe quindi per uomini simili un'impresa folle e insensata voler sperimentare o indagare un inconscio che non contiene se non il tranquillo, indisturbato corso della natura. Ma il nostro inconscio nasconde un'acqua vivente, cioè spirito divenuto natura, e ne è perturbato. Il cielo è diventato per noi spazio fisico, e l'empireo divino un bel ricordo. Tuttavia «il nostro cuore arde» e un'inquietudine misteriosa rode le radici del nostro essere. Potremmo chiedere con la Völuspä:

Che cosa mormora ancora Wotan sulla testa di Mimir?

Già la sorgente ribolle...15

Occuparci dell'inconscio è per noi una questione vitale. Si tratta di essere spiritualmente o non essere. Tutti coloro che hanno vissuto un'esperienza quale quella del sogno summenzionato sanno che il tesoro riposa sul fondo dell'acqua e cercheranno di trarlo a riva. E poiché mai devono dimenticare chi sono, non devono mai perdere, per nessun motivo, la loro coscienza. Così terranno fermamente ancorato alla terra il loro punto di vista e diventeranno (per restare nella metafora) «pescatori», che con l'amo e con la rete prendono ciò che nuota nell'acqua. Anche se ci sono folli, puri e impuri, che non capiscono l'azione dei pescatori, questi non si sbaglieranno sul significato secolare del loro agire, poiché il simbolo del loro mestiere è di molti secoli più antico dell'ancor valido annuncio del santo Gral. Ma non tutti son pescatori. Questa figura si ferma talvolta al suo primo gradino istintuale, e appare allora come una lontra, come sappiamo dalle Fischottermärchen [Favole della lontra] di Oscar A.H. Schmitz.

Chi guarda nell'acqua vede, è vero, la propria immagine, ma ben presto dietro di essa emergono creature viventi, probabilmente pesci, innocui abitatori del profondo - innocui, se il lago non fosse per molti abitato da spettri, da esseri acquatici di tipo speciale. Talvolta rimane impigliata nella rete del pescatore un'ondina, pesce femminile semiumano.16 Le ondine sono creature ammaliatrici:

Per metà lei lo tirò, per metà egli affondò

E nessuno lo vide più.

L'ondina rappresenta un livello ancor più istintuale del magico essere femminile che io designo con il termine latino Anima. Può trattarsi anche di sirene, melusine,17 ninfe dei boschi, grazie, figlie del re degli elfi, lamie e succubi che seducono i giovani e succhiano loro la vita. Queste figure, dirà il critico moralista, sono proiezioni di stati d'animo pieni di bramosie e di fantasie riprovevoli. Non si può negare che una tale posizione sia, entro certi limiti, giustificata. Ma è tutta la verità? L'ondina è solo il prodotto di un rilassamento morale? Non sono già esistiti molto tempo fa esseri simili, in un'epoca in cui la coscienza umana, ancora ai suoi albori, era completamente fusa con la natura? Gli spiriti dei boschi, dei campi e dei corsi d'acqua sono assai anteriori al problema della coscienza morale. Inoltre, questi esseri erano temuti oltre che amati, sicché non erano caratterizzati soltanto dai loro particolari atteggiamenti erotici. La coscienza era allora molto più semplice, e la sua consistenza irrisoria. Presso i primitivi, un enorme ammontare di ciò che noi oggi sentiamo come parte integrante del nostro essere psichico è tranquillamente proiettato oltre lontani confini.

La parola «proiezione» mal si adatta però al nostro caso, poiché nulla è stato espulso fuori dell'anima, ma piuttosto la psiche, attraverso una serie di atti di introiezione, è arrivata alla complessità che noi oggi le riconosciamo. La sua complessità è aumentata in proporzione alla despiritualizzazione della natura. La conturbante grazia dei tempi passati è l'odierna «fantasia erotica», che complica penosamente la nostra vita psichica. Ci si fa incontro proprio come un'ondina; e per di più assomiglia a un succubo; come una strega assume forme diverse e soprattutto fruisce di un'intollerabile autonomia che davvero non spetterebbe a un contenuto psichico. A volte è causa di malie che uguagliano la peggiore stregoneria, o di angosce che nessuna apparizione diabolica potrebbe superare. E un essere malizioso che attraversa il nostro cammino con metamorfosi e travestimenti e che ci gioca ogni sorta di tiri, ci crea illusioni, fauste e nefaste, depressioni ed estasi, affetti incontrollati e così via. Anche in condizioni di ragionevole introiezione, l'ondina non ha deposto la sua malizia, né la strega ha smesso di mescolare i suoi sordidi filtri d'amore e di morte; il suo veleno magico si è raffinato in intrigo e autoinganno, invisibili sì ma non meno pericolosi.

Ma dove prendiamo il coraggio di chiamare Anima quest'elfo? Anima indica invero qualcosa di meraviglioso e d'immortale! Eppure non è stato sempre così: non bisogna dimenticare che quest'anima «meravigliosa e immortale» è un'idea dogmatica, che ha lo scopo di esorcizzare e di imprigionare qualcosa d'inquietantemente vivo e spontaneo. La parola tedesca Seele (anima) è strettamente imparentata, attraverso la forma gotica saiwalò, con la parola greca aiólos, che significa «mosso», «cangiante», qualcosa di simile a una farfalla, in greco psyché, che svolazza ebbra di fiore in fiore e vive di miele e di amore. Nella tipologia gnostica l’ànthropos psychikós (l'uomo psichico) è inferiore allo pneumatikós (l'uomo spirituale), e ci sono infine anche anime malvagie che debbono ardere nell'inferno per tutta l'eternità. Persino l'innocentissima anima del neonato non battezzato è quanto meno privata della visione beatifica. Presso i primitivi essa è magico soffio vitale (quindi «anima») o fiamma. Ben si esprime un Logion non canonico del Signore: «Chi è vicino a me è vicino al fuoco».36 Per Eraclito l'anima è, al suo più alto livello, ardente e asciutta, poiché psyché è strettamente connessa con «soffio fresco»; psychein significa alitare, psychrós è freddo e psychos fresco.

Essere dotato di anima è essere vivo. L'anima è la parte vivente dell'uomo, ciò che vive di per sé e dà vita; se Dio ha immesso in Adamo un soffio di vita è perché potesse vivere. Con astuzia e con giocoso inganno, l'anima attira verso la vita l'inerzia della materia che non vuoi vivere. Fa credere all'uomo cose inverosimili: affinché la vita sia vissuta. Come Eva nel paradiso terrestre non fu soddisfatta fino a che non ebbe convinto Adamo della bontà della mela proibita, l'anima è piena di lacci e insidie tese perché l'uomo vi cada, raggiunga la terra, vi sia irretito e vi rimanga legato: affinché la vita sia vissuta. Se non fosse per la vivacità e per l'iridescenza dell'anima, l'uomo si fermerebbe alla sua massima passione, l'accidia,18 cui fa da avvocato un certo tipo di ragionevolezza e che un certo tipo di moralità approva. Avere un'anima è precisamente il rischio della vita, poiché l'anima è un demone dispensatore di vita che esegue il suo gioco da elfo al di sopra e al di sotto dell'esistenza umana e che perciò (nel dogma) è minacciato da sovrumani castighi e propiziato con sovrumane benedizioni, che vanno molto al di là di quanto l'uomo può meritare. Cielo e inferno sono destinati all'anima e non all'uomo civile, il quale nella sua nudità e ottusità non saprebbe proprio che fare di sé in una Gerusalemme celeste.

L'Anima non è un'entità dogmatica, non è un 'anima rationalis (che è un concetto filosofico), ma un archetipo naturale che sussume in modo soddisfacente tutte le attestazioni dell'inconscio, dello spirito primitivo, della storia della lingua e della religione. E’ un «fattore» nel senso proprio del termine. Non può essere fatta; è sempre l'a priori di umori, reazioni, impulsi e di tutto quel che esiste di spontaneo nella psiche. È qualcosa che vive di per sé, che ci fa vivere; una vita dietro la coscienza, alla quale non può essere completamente integrata e dalla quale, piuttosto, emerge. Poiché in definitiva la vita psichica è per la maggior parte un inconscio che circonda la coscienza da ogni lato; nozione questa che diventa senz'altro evidente quando ci si rende conto di quale inconscia preparazione sia necessaria, ad esempio, per prender coscienza di un'impressione sensoriale, per registrarla.

Benché sembri che la totalità della vita psichica inconscia debba essere attribuita all'Anima, questa non è che un archetipo tra molti; non caratterizza quindi di per sé l'inconscio, di cui è soltanto un aspetto. Questo già risulta dal fatto della sua femminilità. Ciò che in me, uomo, è non-Io, non è cioè maschile, è molto probabilmente femminile, e poiché il non-Io è considerato non appartenente all'Io e pertanto al di fuori di esso, l'immagine dell'Anima è abitualmente proiettata su donne. In ciascun sesso è insito (fino a un certo punto) il sesso opposto dato che, dal punto di vista biologico, è soltanto la maggior quantità di geni maschili che fa pendere la bilancia in favore della virilità. Il minor numero di geni femminili sembra costituire un carattere femminile che però, a causa della sua inferiorità quantitativa, solitamente rimane inconscio.

Con l'archetipo dell'Anima incontriamo il regno degli dèi, ovvero la regione che la metafisica ha riservato a se stessa. Tutto quel che l'Anima tocca diventa numinoso, cioè assoluto, pericoloso, soggetto a tabù, magico. Essa è la serpe nel paradiso dell'uomo innocente, pieno di buoni propositi e di buone intenzioni. L'Anima ci fornisce i motivi che ci convincono a non tuffarci nell'inconscio, evitando così che vadano distrutte le nostre inibizioni morali e si scatenino forze che meglio sarebbe stato lasciare indisturbate. Come sempre, anche qui essa non ha del tutto torto, inquantoché la vita in sé non è soltanto un bene, è anche male. In quanto vuole la vita, l'Anima vuole il bene e il male. Nel regno degli elfi queste categorie non esistono: la vita corporea e quella psichica hanno spesso l'impudenza di cavarsela molto meglio e di restare sanissime senza morale convenzionale.

L'Anima crede nel Kalós Kàgatós (il bello e il buono), concetto primitivo anteriore alla scoperta dell'opposizione tra estetica e morale. E’ occorsa una lunga differenziazione cristiana per chiarire che il bene non è sempre bello e il bello non è necessariamente buono. La paradossalità di questa coppia di concetti non turbava né gli antichi né i primitivi. L'Anima è conservatrice e si attiene in modo esasperante all'umanità antica. Perciò appare spesso e volentieri in veste storica, dimostrando una particolare predilezione per la Grecia e l'Egitto (ricordo a questo proposito i classici Rider Haggard e Pierre Benoît). Anche la rinascimentale Hypnerotomachia Poliphili19 e il Faust di Goethe hanno scavato profondamente nell'antichità per trovare le vrai mot de la situation. La prima ha evocato la regina Venere, il secondo Elena di Troia. Aniela Jaffé ha abbozzato un quadro vivace dell'Anima nel mondo dei romantici e nel periodo del Biedermeier.20 Non voglio moltiplicare il numero delle testimonianze importanti e autentiche; esse ci forniscono materiali e simboli veri in misura sufficiente a fecondare la nostra meditazione. A chi vuoi sapere come vadano le cose quando l'Anima appare nella società moderna, raccomando soprattutto The Private Life of Helen of Troy [La vita privata di Elena di Troia] di Erskine. E opera non poco profonda, poiché su tutto ciò che veramente vive spira l'alito dell'eternità. L'Anima è la vita al di là di tutte le categorie, e non si cura di biasimi e di apprezzamenti. La Regina del cielo e l'ochetta impigliata nella trappola della vita! Si è mai riflettuto a quale misero destino sia stata sottoposta sotto la volta del cielo la leggenda di Maria? La vita senza senso né regola che non realizza pienamente se stessa è oggetto di spavento e difesa per l'uomo ben integrato nella sua civiltà; né si può dargli torto, perché la vita è altresì madre di ogni tragedia e assurdità. L'uomo, nato per vivere sulla terra, lotta fin dall'inizio, con il suo sano istinto animale, contro la propria anima e i demoni che in essa albergano. Se l'anima fosse inequivocabilmente oscura, la cosa sarebbe facile, ma purtroppo non è così, perché la stessa Anima può apparire anche come angelo di luce, come psicopompo, e condurre ai valori più alti, come indica il Faust.

Se il confronto con l'Ombra è, per dir così, opera da apprendista, il confronto con l'Anima è opera da maestro. Il rapporto con l'Anima è infatti di nuovo una prova di coraggio, una prova del fuoco per le forze spirituali e morali dell'uomo. Non bisogna mai dimenticare che, nel caso dell'Anima, si tratta di fatti psichici che non sono mai stati, per così dire, in possesso dell'uomo, in quanto, come proiezioni, erano quasi sempre al di fuori del suo campo psichico. Per il figlio, l'Anima sta nel predominio della madre, che spesso resta legata a lui sentimentalmente per tutta la vita, pregiudicando nel modo più grave il suo destino da adulto, o, al contrario, dando ali al suo coraggio nel compimento delle azioni più ardite. All'uomo antico l'Anima apparve come dea o strega; l'uomo medievale, invece, ha sostituito alla dea la Regina del cielo e la Madre Chiesa. Il mondo protestante, svuotato di simboli, ha prima prodotto una malsana sentimentalità e poi un acutizzarsi del conflitto morale che, essendo insopportabile, conduce logicamente al nietzschiano «al di là del bene e del male».

Nelle aree più civilizzate questo stato si manifesta nella sempre maggiore instabilità del matrimonio. La percentuale americana dei divorzi è raggiunta, se non superata, in diversi Paesi d'Europa, e questo dimostra che l'Anima si proietta di preferenza sull'altro sesso, dando luogo a rapporti di magica complessità. Questo fatto ha condotto, in buona parte anche per le sue conseguenze patologiche, al sorgere della moderna psicologia; la quale, nella sua forma freudiana, è incline all'opinione che la base essenziale di tutti i disturbi sia la sessualità, opinione che non fa che acutizzare il conflitto già in atto.21 Si confondono cioè causa ed effetto. I disturbi sessuali non sono affatto la causa delle difficoltà nevrotiche, bensì, come queste, uno degli effetti patologici che derivano da un diminuito adattamento della coscienza: questa si trova a confronto con una situazione e un compito di cui non è all'altezza, e non comprende come il suo mondo sia mutato e cosa dovrebbe fare per adattarsi al nuovo. Le peuple porte le sceau d'un hiver qu'on n'explique pas, dice la traduzione dell'iscrizione incisa su una stele coreana.

Sia nel caso dell'Ombra sia in quello dell'Anima, non basta conoscere questi concetti e analizzarli. Né è possibile sperimentare il loro contenuto immedesimandosi in essi o assimilandoli. Così come non serve a niente imparare a memoria un elenco di archetipi. Gli archetipi sono complessi di esperienza che sopravvengono fatalmente, e il cui effetto si fa sentire nella nostra vita più personale. L'Anima non ci si fa più incontro come una dea ma, a seconda delle circostanze, come il nostro più personale fraintendimento o la nostra più bella avventura. Quando, ad esempio, un vecchio e benemerito studioso settantenne abbandona la famiglia per sposare un'attricetta dai capelli rossi, noi sappiamo che gli dèi hanno mietuto un'altra vittima. Così si manifesta a noi il demoniaco potere. E fino a un tempo non molto lontano sarebbe stata cosa facile sbarazzarsi di quella ragazza dichiarandola strega.

L'esperienza mi ha dimostrato che ci sono molte persone dotate di una certa intelligenza e di una certa cultura che afferrano facilmente e immediatamente l'idea dell'Anima e della sua relativa autonomia, e così pure il fenomeno dell'Animus nella donna. A questo riguardo gli psicologi hanno da superare difficoltà maggiori, probabilmente perché non sono soliti confrontarsi con i fatti complessi che contraddistinguono la psicologia dell'inconscio. Se per di più sono medici, li ostacola la mentalità somatopsicologica, secondo la quale accadimenti psicologici possono essere espressi in termini di concetti intellettuali, biologici o fisiologici. Ma la psicologia non è né biologia né fisiologia né alcun'altra scienza, essa è soltanto conoscenza della psiche.

L'immagine dell'Anima che ho fin qui delineata non è completa. Essa è sì un caotico impulso vitale; tuttavia racchiude anche uno strano significato, come un sapere segreto o una saggezza nascosta, che contrasta nel modo più singolare con la sua natura elfica irrazionale. Vorrei rinviare ancora una volta agli autori succitati. Rider Haggard chiama She «Figlia della saggezza» (Wisdom's daughter)-, la regina dell'Atlantide di Benoît possiede un'eccellente biblioteca che contiene persino un'opera perduta di Platone. Elena di Troia, nella sua reincarnazione, accompagna nei suoi viaggi Simon Mago che l'ha liberata dal bordello di Tiro. Ho omesso fin qui volontariamente di far menzione di quest'aspetto assolutamente caratteristico dell'Anima perché, a chi l'incontra per la prima volta, essa fa venire in mente tutto fuorché la saggezza.22 Questo aspetto appare soltanto a colui che si confronta seriamente con l'Anima. Soltanto dopo questo faticoso lavoro,23 è possibile rendersi conto, in modo sempre più evidente che, dietro il suo gioco crudele con il destino umano, si nasconde qualcosa come un'intenzione segreta che sembra corrispondere a una superiore conoscenza delle leggi della vita. Ed è proprio l'inaspettato, il caos inquietante, a rivelare un significato profondo; e quanto più questo significato si fa manifesto, tanto più l'Anima perde il suo carattere impetuoso e coattivo. A poco a poco sorgono le dighe contro le ondate del caos; ciò che ha senso si separa dall'insensato; senso e nonsenso non essendo più identici, la forza del caos s'indebolisce perché l'uno e l'altro gli sono sottratti; il senso è munito soltanto della propria forza, e così pure il nonsenso. Sorge allora un nuovo cosmo. Non intendo formulare una nuova scoperta della psicologia terapeutica, bensì quest'antichissima verità, che cioè dalla pienezza dell'esperienza della vita procede l'insegnamento che il padre trasmette al figlio.24

Nella natura elfica saggezza e follia non soltanto appaiono, ma «sono» una cosa sola, fintantoché son rappresentate dall'Anima. La vita è folle «e» significante. E se non ridiamo della sua follia e non speculiamo sul suo significato, essa diventa banale e tutto si riduce al livello più basso. Allora c'è poco senso e poco nonsenso. In fondo, nulla ha significato, perché quando ancora non c'erano uomini pensanti non c'era nessuno che interpretasse i fenomeni; soltanto a chi non comprende occorre spiegare. Ha significato solo l'incomprensibile. L'uomo si è svegliato in un mondo che non comprendeva: ecco perché cerca d'interpretarlo.

Così l'Anima e quindi la vita sono prive di significato nella misura in cui non offrono interpretazione. Ma è interpretabile la loro essenza, poiché in ogni caos vi è un cosmo, in ogni disordine un ordine nascosto, in ogni arbitrio una legge costante: tutto ciò che opera è basato sul proprio opposto. Per riconoscere questo è necessaria la mente discriminatrice dell'uomo, che riduce tutto a giudizi antinomici. Allorché essa viene a confronto con l'Anima, il caotico arbitrio di questa le dà motivo di presagire un ordine segreto, di «postulare» cioè, saremmo quasi tentati di dire, un piano, un senso e un'intenzione al di là della sua essenza. Ciò però non corrisponderebbe alla verità, perché in realtà noi non disponiamo a tutta prima di fredda riflessione, né ci soccorre alcuna scienza o filosofia; quanto alla dottrina religiosa tradizionale, essa ci aiuta in modo assai limitato. Siamo presi e irretiti in esperienze senza meta, e il nostro giudizio, con tutte le sue categorie, si rivela impotente. L'interpretazione umana fallisce, poiché alla turbolenta situazione vitale creatasi non si adatta alcun significato tradizionale. E' un momento in cui tutto crolla; sprofondiamo in un ultimo abisso, come dice giustamente Apuleio, ad instar voluntariae mortis. E' una rinuncia al nostro potere, non deliberatamente voluta ma impostaci dalla natura; una piena, inequivocabile sconfitta, coronata dal timor panico della demoralizzazione, non una resa volontaria o un'umiliazione paludate di motivi morali. Quando appoggi e sostegni vanno tutti in frantumi, e non ci sentiamo le spalle coperte neanche dalla più vaga promessa di protezione, allora per la prima volta ci è data la possibilità di sperimentare un archetipo che si era tenuto finora nascosto dietro il nonsenso pieno di significato dell'Anima, «l'archetipo del significato», come l'Anima è semplicemente «l'archetipo della vita».

A dire il vero, il significato ci sembra sempre l'evento più recente, perché presumiamo (con una certa ragione) di essere noi stessi ad attribuirlo; e perché, ugualmente a buon diritto, crediamo che il vasto mondo possa esistere senza essere interpretato. Ma come attribuiamo il significato? da dove in ultima analisi lo ricaviamo? Le forme di cui ci serviamo a questo scopo sono categorie storiche che risalgono a una nebulosa antichità senza che noi di solito ce ne rendiamo sufficientemente conto. Nell'attribuire i significati ci serviamo di matrici linguistiche, derivate a loro volta da immagini primigenie. Da qualsiasi lato ci accostiamo al problema, ci imbattiamo nella storia della lingua e dei motivi e sempre immediatamente essa ci riporta al primitivo mondo delle meraviglie.

Prendiamo, ad esempio, la parola «idea». Essa risale al concetto di eidoç in Platone, e le idee eterne sono immagini primigenie conservate ἐν ύπερουρανίῳ τόπῳ (in un luogo sovracceleste) come forme eterne, trascendenti. L'occhio del veggente le percepisce come imagines et lares, o come immagini oniriche e visioni rivelatrici. Oppure prendiamo il concetto di «energia», che è un'interpretazione di eventi fisici: un tempo era il fuoco misterioso degli alchimisti, il flogisto, la potenza calorica inerente alla materia, come il calore primigenio degli stoici o il πῦρ ἀεὶ ζῶον (fuoco eternamente vivo) di Eraclito, già molto vicino alla primitiva concezione di una forza viva diffusa per ogni dove, accrescitrice e magicamente risanatrice, comunemente chiamata «mana».

Non intendo accumulare esempi inutilmente; basti sapere che non «una sola» delle idee o concezioni essenziali è priva di antecedenti storici. In ultima analisi, esse sono tutte fondate su forme archetipiche primigenie, la cui evidenza risale a un'epoca in cui la coscienza ancora non «pensava», ma «percepiva». Il pensiero era oggetto di percezione interna, non era pensato, ma sentito, per così dire veduto, udito come fenomeno esterno. Il pensiero era essenzialmente rivelazione; non era inventato, ma imposto, o convincente per la sua diretta realtà. Il pensare precede la primitiva coscienza dell'Io, che ne è piuttosto l'oggetto che il soggetto. Nemmeno noi abbiamo ancora raggiunto la più alta vetta della coscienza; abbiamo anche noi un pensare preesistente, di cui non ci rendiamo conto finché ci sostengono i simboli tradizionali, o, per esprimerci con il linguaggio dei sogni, finché il padre o il re non sia morto.

Vorrei mostrare con un esempio come l'inconscio «pensi» e prepari le soluzioni. Si tratta del caso di un giovane studente di teologia, che non conoscevo personalmente e che aveva molti problemi di carattere religioso. Egli fece allora questo sogno.25

Si trovava alla presenza di un bel vecchio, tutto vestito di «nero», e sapeva che quello era il mago «bianco». Questi gli aveva tenuto un lungo discorso di cui egli riusciva a ricordare soltanto l'epilogo: «E per questo abbiamo bisogno dell'aiuto del mago nero.» In quel momento si aprì la porta ed entrò un vecchio del tutto simile al primo, ma vestito di «bianco». Egli disse al mago bianco: «Ho bisogno del tuo consiglio», ma gettò di tralice un'occhiata interrogativa sullo studente. Il mago bianco disse: «Puoi parlare tranquillamente, è un innocente». Allora il mago nero cominciò a raccontare la sua storia. Veniva da un paese lontano dov'era accaduto qualcosa di strano. Il paese era governato da un vecchio re che, sentendosi vicino alla morte, si era scelto il sepolcro. C'era infatti in quel paese una grande quantità di antichi sepolcri, e il re aveva scelto per sé il più bello. Secondo la leggenda, vi era sepolta una vergine. Il re lo aveva fatto aprire per sistemarlo secondo la sua intenzione, ma le ossa che vi si trovavano, non appena portate alla luce, avevano preso vita all' improvviso, trasformandosi in un cavallo nero che immantinente era scomparso fuggendo verso il deserto. Egli - il mago nero - aveva sentito raccontare la storia e si era subito messo in cammino per trovare il cavallo. Dopo aver viaggiato per molti giorni sulle tracce dell'animale, era giunto al deserto e lo aveva attraversato da un capo all'altro, giungendo al punto in cui ricominciava la prateria. Là aveva trovato il cavallo che pascolava e anche l'oggetto a proposito del quale aveva bisogno del consiglio del mago bianco: aveva cioè trovato «le chiavi del paradiso», ma non sapeva che farne. In quel momento di tensione il giovane si svegliò.

Alla luce delle spiegazioni precedenti, il sogno non è di difficile interpretazione. Il vecchio re è il simbolo dominante che vuole trovare la quiete eterna, e proprio nel luogo dove sono già sepolte «dominanti» analoghe. La sua scelta cade precisamente sul sepolcro dellAnima, che dorme il sonno della morte come la bella addormentata, fintantoché un principio (principe o princeps) valido regola ed esprime la vita. Ma quando il re giunge al termine della propria vita,26 ella riacquista la sua e si trasforma nel cavallo nero che già nella similitudine di Platone esprime la natura ribelle delle passioni. Chi lo segue giunge al deserto, cioè in una terra selvaggia e abbandonata, immagine dell'isolamento spirituale e morale. Lì però si trovano le chiavi del paradiso.

Che cos'è il paradiso? Evidentemente il giardino dell'Eden con il suo bifronte albero della vita e della conoscenza e i suoi quattro fiumi. Nella versione cristiana è anche la città celeste dell'Apocalisse, concepita altresì come mandala, così come il giardino dell'Eden. Ma il mandala è simbolo dell'individuazione. Perciò è il mago nero che trova le chiavi destinate a risolvere le difficoltà religiose in cui si dibatte lo studente, le chiavi che aprono la via dell'individuazione. Il contrasto deserto-paradiso significa anche il contrasto isolamento-indi- viduazione o divenire del Sé.

Questa parte del sogno è al tempo stesso una rimarchevole parafrasi del detto apocrifo del Signore (Logion Jesu) riportato nel papiro di Ossirinco, in cui la via verso il regno dei cieli è indicata da animali e dove si trova l'ammonimento: «Perciò conoscete voi stessi, perché voi siete la città e la città è il regno».48 E inoltre una parafrasi del serpente del paradiso, che convinse i progenitori a commettere il peccato e condusse poi, per mezzo del Figlio di Dio, alla redenzione del genere umano. Questo nesso causale ha dato origine, com'è noto, all'identificazione ofitica del serpente con il Lgjtt]q (salvatore, redentore). Il cavallo nero e il mago nero sono, e questo è un apporto del pensiero moderno, elementi quasi malvagi, la cui relatività rispetto al bene è tuttavia accennata nello scambio della veste. I due maghi sono i due aspetti del vecchio saggio, del maestro e guida, dell'archetipo dello spirito, che rappresenta il significato preesistente nascosto nel caos della vita. Egli è il padre dell'anima, la quale è però, miracolosamente, la sua madre-vergine, ragion per cui egli venne chiamato dagli alchimisti «l'antichissimo figlio della madre». Nel sogno sopra ricordato, il mago nero e il cavallo nero corrispondono alla discesa nell'oscurità.

Lezione terribilmente difficile per un giovane studente di teologia! Per fortuna egli non si accorse affatto che il Padre dei profeti gli parlava in sogno e aveva posto quasi alla sua portata un grande segreto. C'è davvero da meravigliarsi di quanto simili esperienze siano sproporzionate allo scopo che si propongono. Perché un così grande spreco? A questo punto non posso fare a meno di dire che non sappiamo come questo sogno abbia agito a lungo andare sullo studente; ma devo far notare che, almeno a me, esso ha detto molto. Non andrà quindi perso, anche se il sognatore non l'ha capito.

Il maestro che appare qui in sogno cerca evidentemente di rappresentare il bene e il male nella loro funzione comune, probabilmente in risposta al conflitto morale ancora irrisolto nell'anima cristiana. Con questa peculiare relati- vizzazione degli opposti, ci andiamo in certo modo avvicinando alle idee dell'Oriente, al nirdvandva della filosofia induistica, alla liberazione dagli opposti, presentata come una possibile soluzione conciliatrice dei conflitti. Quanto

sia pericolosamente densa di significato la relatività orientale del bene e del male risulta dall'aforisma indiano: «Chi è più lontano dalla perfezione, colui che ama Dio o colui che lo odia?». Ed ecco la risposta: «A colui che ama Dio occorrono sette reincarnazioni per raggiungere la perfezione; a colui che lo odia ne bastano tre, poiché colui che lo odia penserà a lui più di colui che lo ama». La liberazione dagli opposti presuppone una loro equivalenza funzionale che ripugna al nostro modo di sentire cristiano. Ciò nonostante, come attesta l'esempio del sogno, la cooperazione coordinata dei contrasti morali è una verità naturale che, con altrettanta naturalezza, è stata riconosciuta dall'Oriente, come dimostra nel modo più evidente la filosofia taoi- sta. Del resto, anche la tradizione cristiana contiene testimonianze che si avvicinano a questo modo di vedere: per esempio, la parabola del fattore infedele.

Sotto quest'aspetto, il nostro sogno non è unico nel suo genere, in quanto la tendenza a relativizzare gli opposti è una pronunciata caratteristica dell'inconscio. Bisogna però aggiungere subito che ciò vale soltanto là dove esista una sensibilità morale acutissima; in altri casi l'inconscio può altrettanto inesorabilmente insistere sull'incompatibilità degli opposti. Di solito, la sua posizione è relativa all'atteggiamento cosciente; quindi si può probabilmente dire che il sogno in questione presuppone le specifiche credenze e gli specifici dubbi di una coscienza teologica di osservanza protestante. Ciò significa che quanto il sogno attesta è limitato a una problematica determinata. Ma anche riducendo così la sua validità, il sogno dimostra la superiorità del suo punto di vista. Il suo significato si esprime infatti adeguatamente attraverso l'opinione e la voce di un saggio mago che, sotto ogni aspetto, è molto superiore alla coscienza di colui che ha sognato. Il mago è sinonimo del vecchio saggio, che si richiama in linea diretta alla figura dello stregone nella società primitiva. Egli è, come l'Anima, un demone immortale che penetra le tenebre caotiche della vita ordinaria con la luce del significato. È colui che illumina, guida, maestro e psicopompo (guida delle anime), alla cui personificazione

neppure Nietzsche, il «distruttore delle tavole della legge», ha potuto sottrarsi: egli ha addirittura evocato la sua reincarnazione in Zarathustra, spirito superiore di un'età quasi omerica, fino a farne il veicolo e il portavoce della propria illuminazione ed estasi dionisiaca. Per Nietzsche Dio era morto, ma il demone della saggezza divenne, per così dire, il suo doppio corporeo. Dice egli infatti:

...ecco che l'Uno divenne Due -

- E Zarathustra mi passò vicino-

Zarathustra è per Nietzsche più di una figura poetica: è un'involontaria confessione. Anche Nietzsche si era perduto nelle tenebre di una vita allontanatasi da Dio e dal cristianesimo; per questo si avvicinò a lui il rivelatore, colui che illumina, fonte parlante della sua anima. Donde il linguaggio ieratico di Zarathustra, corrispondente allo stile di quest'archetipo.

Nel farne esperienza, l'uomo moderno sperimenta il primordiale modo di pensare come attività autonoma di cui egli è oggetto. Ermete Trismegisto o il Thoth della letteratura ermetica, Orfeo, il Poimandres e il Poimén di Erma a quest'ultimo apparentato27 sono ulteriori formulazioni della stessa esperienza. Se il nome «Lucifero» non fosse già così compromesso, ben si adatterebbe a questo archetipo, che mi sono perciò limitato a indicare come «l'archetipo del vecchio saggio», o «del significato». Come tutti gli archetipi, anche questo ha un aspetto positivo e uno negativo; ma non vorrei trattarne in questa sede. Il lettore troverà un'esposizione esauriente del duplice volto del vecchio saggio nel mio scritto sulla Fenomenologia dello spirito nella fiaba.

I tre archetipi finora esaminati: l'Ombra, l'Anima e il Vecchio Saggio si manifestano nell'esperienza diretta in forma personificata. Ho cercato di indicare nelle pagine precedenti da quali comuni condizioni psicologiche derivi una tale esperienza. Ma quelle da me esposte non sono che astratte razionalizzazioni. Si potrebbe, o meglio si dovrebbe, dare una descrizione del processo così come si presenta nell'esperienza diretta. Nel corso di questo processo, gli archetipi si manifestano infatti come personalità che agiscono nei sogni e nelle fantasie. Ma il processo in quanto tale è rappresentato da un altro tipo di archetipi, che si potrebbero genericamente chiamare «archetipi della trasformazione». Questi ultimi non sono individualità, ma piuttosto situazioni, luoghi, modi e mezzi tipici che simboleggiano la specie di trasformazione di cui si tratta. Come le personalità, anche questi archetipi sono veri e propri simboli che non possono essere interpretati esaurientemente né come σημεῖα (segni) né come allegorie. Sono simboli autentici proprio in quanto sono plurivoci, carichi di allusioni, insomma inesauribili. I princìpi basilari dell'inconscio, le ἀρχαί, nonostante siano riconoscibili, sono, per la loro ricchezza di riferimenti, indescrivibili. Naturalmente il giudizio intellettuale si sforza sempre di accertarne l'univocità, e perciò non afferra il punto essenziale, perché quel che si riesce a stabilire anzitutto, come unica cosa corrispondente alla loro natura, è la loro plurivocità, la loro quasi incalcolabile pienezza di riferimenti che rende impossibile ogni univoca formulazione. Inoltre essi sono, in linea di principio, paradossali, come lo spirito è, per gli alchimisti, simul senex et iuvenis (vecchio e giovane insieme).

Volendo rappresentarci il processo simbolico, troveremo ottimi esempi nelle serie di immagini alchemiche, benché i loro simboli siano perlopiù tradizionali, nonostante la frequente oscurità della provenienza e del significato. Un eccellente esempio orientale ci è offerto dal sistema tantrico dei cakra28 o dal mistico «sistema nervoso» dello yoga cinese.29 Si direbbe che dagli archetipi della trasformazione siano discese anche le serie di immagini dei tarocchi; questa mia opinione è stata rafforzata da un'illuminante conferenza di Bernoulli.30

Il processo simbolico è «un'esperienza nell'immagine e dell'immagine». Il suo sviluppo rivela di solito una struttura enantiodromica, come il testo dell'I Ching, e presenta perciò un ritmo negativo e positivo, di perdita e di guadagno, di luce e di tenebra. Il suo inizio è quasi sempre caratterizzato da un vicolo cieco o da una simile situazione impossibile; il suo scopo è, genericamente parlando, un'«illuminazione o più elevata coscienza» per mezzo della quale la situazione di partenza è superata su un piano più alto. In termini di tempo, il processo può presentarsi condensato nella durata di un unico sogno o in un breve attimo di esperienza, oppure può estendersi a mesi e anni, a seconda del tipo di situazione iniziale, dell'individuo che vi è implicato e dello scopo che dev'esser raggiunto. Naturalmente la ricchezza di simboli varia straordinariamente da caso a caso. Sebbene in un primo tempo tutto sia vissuto in immagine, cioè simbolicamente, non si tratta affatto di pericoli immaginari, ma di rischi effettivi, dai quali può in certi casi dipendere un destino. Il pericolo principale è quello di soccombere al fascinante influsso degli archetipi, pericolo specialmente concreto se «non rendiamo coscienti» a noi stessi le immagini archetipiche. Allorché c'è già una predisposizione alla psicosi, può addirittura accadere che le figure archetipiche, nelle quali in virtù della loro numinosità naturale è insita una certa autonomia, si liberino del tutto da ogni controllo cosciente, conseguendo piena indipendenza e generando fenomeni di possessione. In caso di possessione da parte dell'Anima, ad esempio, il malato vuol trasformarsi, mediante autoevirazione, in donna, oppure teme che gli sia fatta subire a forza qualcosa del genere. Citerò come esempio le ben note Memorie di un malato di nervi (1903) di Schreber. Spesso sono i malati a scoprire un'intera mitologia dell'Anima ricca di motivi arcaici. Un caso del genere fu, a suo tempo, pubblicato da Nelken. Un altro paziente ha descritto e commentato in un libro le proprie esperienze.31 Menziono questi casi poiché ci sono ancora persone secondo le quali gli archetipi sono chimere mie soggettive.

Quello che viene brutalmente alla luce nella psicosi, nella nevrosi rimane ancora velato, sullo sfondo, donde influisce però ugualmente sulla coscienza. Così, quando l'analisi penetra sul fondo dei fenomeni coscienti, scopre quelle stesse figure archetipiche che animano i deliri degli psicotici. Infine, numerosi documenti storico-letterari dimostrano che nel caso di questi archetipi si tratta di tipi normali di fantasia che si presentano praticamente ovunque, non di prodotti della malattia mentale. L'elemento patologico non risiede nell'esistenza delle rappresentazioni, ma nella dissociazione della coscienza, divenuta incapace di dominare l'inconscio. In tutti i casi di dissociazione sorge quindi la necessità di integrare l'inconscio alla coscienza. Si tratta di un processo sintetico da me definito «processo d'individuazione».

Questo processo in verità corrisponde al naturale decorso di una vita nella quale l'individuo diventi quello che da sempre era. Dato che l'uomo è cosciente, un tale sviluppo non si svolge in modo scorrevole, ma è spesso variato e disturbato, poiché la coscienza si allontana continuamente dalla sua base istintiva archetipica entrando in opposizione con essa. E allora necessaria una sintesi delle due posizioni; il che significa psicoterapia già a un livello primitivo, dove essa consiste in riti di reintegrazione. Ne sono esempi le identificazioni degli Australiani con gli antenati dell'epoca «alcheringa», l'identificazione con i «figli del sole» presso i Taos Pueblos, l'apoteosi del sole nei misteri di Iside in Apuleio, e così via. Il metodo terapeutico della psicologia dei complessi consiste quindi da un lato in una presa di coscienza il più possibile completa dei contenuti inconsci costellati, dall'altro nella loro sintesi con la coscienza per mezzo dell'atto di riconoscimento. Ora, poiché l'uomo civilizzato possiede una grandissima dissociabilità e ne fa uso costante per sottrarsi a tutti i rischi possibili, non è affatto scontato che il riconoscimento sia seguito da un'azione corrispondente. Al contrario, bisogna fare i conti con la spiccata inefficacia del riconoscimento, e perciò insistere affinché esso sia applicato in modo sensato. Di regola, il riconoscimento non implica un simile uso né di per sé implica forza morale. In casi del genere diventa chiaro come la cura delle nevrosi sia un problema morale.

Dato che gli archetipi, come tutti i contenuti numinosi, sono relativamente autonomi, essi non possono essere semplicemente integrati in modo razionale, ma richiedono un procedimento dialettico, ossia un vero e proprio confronto, spesso condotto dal paziente in forma dialogica, così che egli, senza saperlo, attua la definizione alchimistica della meditatio: «intimo dialogo con il proprio angelo buono».32 Il processo ha, di solito, un corso drammatico, ricco di peripezie. Si esprime in simboli onirici (o ne è accompagnato), apparentati con quelle représentations collectives che, sotto forma di motivi mitologici, hanno da sempre rappresentato i processi psichici di trasformazione.33

Trattandosi di una lezione, devo limitarmi a trattare solo alcuni esempi di archetipi. Ho scelto quelli che hanno la parte principale nell'analisi di un inconscio maschile, cercando altresì di descrivere a grandi linee il processo di trasformazione psichico in cui appaiono. (Da quando questa lezione è stata pubblicata per la prima volta, le figure qui menzionate dell'Ombra, dell'Anima e del Vecchio Saggio, insieme con quelle corrispondenti dell'inconscio femminile, sono state esaurientemente trattate nei miei scritti sul simbolismo del Sé.34 Ho inoltre sottoposto a un più scrupoloso esame i rapporti del processo d'individuazione con il simbolismo alchemico.)35

Note

1 Freud modificò, nelle opere successive, la concezione fonda­mentale qui accennata. Chiamò «Es» la psiche istintiva e «Super-io» la coscienza collettiva che, nell'individuo, è in parte cosciente, in parte inconscia (in quanto rimossa).

2 Filone di Alessandria, De opificio mundi, 6.

3 Ireneo, Adversus haereses, II. Index, s.v.

4 Nello stesso modo «archetipo» è usato dagli alchimisti, ad esempio nel Tractatus aureus di Ermete Trismegisto (Theatrum chemicum, 1613, voi. 4, p. 718): «Come Dio [che porta] l'intero tesoro della sua divinità... nascosto in sé come in un archetipo... in quel modo stesso Saturno occultamente porta in sé le immagini dei corpi metallici...». In Vigenerus (Tractatus de igne et sale, in Theatrum chemicum, 1661, voi. 6, cap. 4, p. 3) il mondo è «fatto a somiglianza del suo archetipo» e perciò è chiamato magnus homo (Y homo maximus di Swedenborg).

5 Per la precisione, occorre distinguere tra «archetipo» e «rap­presentazioni archetipiche». L'archetipo in quanto tale rappresenta un modello ipotetico, non evidenziabile, simile al modello di com­portamento (pattern of behaviour) noto nella biologia. Vedi Riflessio­ni teoriche sull'essenza della psiche (1947/1954).

6 L'allegoria è la parafrasi di un contenuto cosciente, mentre il simbolo è il miglior modo di esprimere un contenuto inconscio pre­sagito ma ancora sconosciuto.

7 Jung e Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitolo­gia, 1941.

8 Blanke, p. 94.

9 Stöckli, p. 34.

10 Lavaud stabilisce un parallelo altrettanto pertinente con il te­sto deW'Horologium Sapientiae di Enrico Suso, nel quale il Cristo dell'Apocalisse appare come vendicatore furibondo e irato, in pro­fondo contrasto con il Gesù del Sermone della Montagna.

11 Blanke, pp. 95 ss.

12 Jung, Empiria del processo d'individuazione, 1934/1950.

13 Agostino, Confessioni, XIII. 21.

14 Non c'è da meravigliarsi che anche questo sogno sia stato fatto da un teologo perché, dal punto di vista strettamente professionale, un sacerdote deve occuparsi del tema dell'ascesa. Ne deve parlare così spesso che naturalmente si chiede a che punto si trovi la sua stessa ascesa.

15 Questo passo fu scritto, si noti bene, nel 1934.

16 Vedi Paracelso, De vita longa, 1562, e il mio commento in Paracelso come fenomeno spirituale, 1942.

17 Si veda l'immagine dell'adepto nel Liber mutus del 1677. Egli pesca e prende un'ondina, mentre la sua soror mystica prende con la rete uccelli che rappresentano l'Animus. L'idea dell'Anima si incon­tra ripetutamente nella letteratura del sedicesimo e diciassettesimo secolo, per esempio in Richardus Vitus, in Aldrovandus e nel com­mentario al Tractatus aureus. Vedi il mio saggio L'enigma bolognese, in Mysterium coniunctionis, 1955-56.

18 La Rochefoucauld, 1868, vol. 1. In particolare Maxime [supprimée] DCXXX, p. 264.

19 Vedi Fierz-David.

20 Vedi Jaffé.

21 Ho esposto esaurientemente il mio punto di vista nel mio scritto La psicologia della traslazione, 1946.

22 Mi riferisco a esempi letterari comunemente accessibili, perfet­tamente sufficienti al nostro scopo, anziché a materiale clinico.

23 S'intende il confronto con i contenuti dell'inconscio in genera­le. E questo l'unico vero compito del processo d'integrazione.

24 Ne dà un valido esempio il libretto di Schmaltz.

25 Vedi Fenomenologia dello spirito nella fiaba, 1946/1948, nonché Psicologia analitica ed educazione, 1926/1946, dove ho citato questo sogno come esempio di «grande» sogno, ma senza commentarlo dif­fusamente.

26 Si veda il motivo del «vecchio re» nell'alchimia.

27 Reitzenstein vede il Pastore di Erma come la controparte cristiana del Poimandres (Pastore di uomini) ermetico.

28 Avalon, The Serpent Power

29 Rousselle, pp. 135 ss.

30 Bernoulli, pp. 397 ss.

31 Custance

32 Rulandus, Lexicon alchemiae, 1612, s.v. «Meditatio».

33 Rimando alle mie riflessioni in Simboli della trasformazione, 1912/1952.

34 Vedi Aion: ricerche sulla storia del simbolo, 1951.

35 Vedi Psicologia e alchimia, 1944.